Intervista al filosofo teologo Vito Mancuso su attualità, politica e scuola
Vito Mancuso – uno dei più stimati pensatori contemporanei, autore di “Non ti manchi mai la gioia”, uscito a novembre scorso per Garzanti – passeggia all’imbrunire. Prometto di rubargli solo pochi minuti, ma è impossibile guardare l’orologio quando si parla ad un grande interprete del nostro tempo, che finisco per accompagnare fino all’uscio di casa, con una lunga chiacchierata al telefono. Una domanda tira l’altra, il discorso spazia dalla politica, a Gaza, ai giovani, alla scuola, ai messaggi contenuti nel suo ultimo libro, che è concreto, immanente, e in una certa misura dissacrante e rivoluzionario. Ma Vito Mancuso piace per questo: il suo pensiero non conosce tabù, né religiosi, né politici, né culturali.
Professore, il suo libro offre un percorso di liberazione dalle trappole in cui incappa l’uomo contemporaneo, che appare svuotato e incattivito. Ma oltre a questo, sullo sfondo, si delinea un mondo moderno a tinte molto fosche. Uno dei problemi è “la fierezza dell’ignoranza” di molti, è il regno dell’oclocrazia.
La democrazia, non solo in Italia, si avvia ad essere oclocrazia. Óchlos è uno dei termini del greco antico per definire il popolo, e sta ad indicare la plebaglia, una massa di persone lontana dalla cultura e fiera della propria ignoranza.
Quali sono le cause di questa degenerazione?
Un certo disprezzo per gli intellettuali. Ma potremmo anche pensare alle tv di Berlusconi negli anni ’80, e al fatto che gli insegnanti siano da tempo poco stimolati e poco considerati: i maestri e i professori prima avevano autorità, e oggi siamo all’opposto. Ma possiamo anche pensare all’effetto dei social e al calo dell’interesse per la lettura di libri e giornali: tutto ciò fa crollare il tasso di criticità. E la malattia più ostica è quella di chi non sa e non riconosce di essere malato.
Nel suo libro lei dice che siamo finiti nella “trappola della dittatura del desiderio individuale”. L’autostima – che è uno dei mantra indiscussi del nostro tempo – si è trasformata in pericoloso narcisismo. Qual è il confine?
L’autostima è una condizione di base, ma diventa negativa se si rapporta tutto solo a se stessi. La vera autostima è la capacità di sapersi relazionare a qualcosa che è più grande di noi, la giustizia, il bene comune, la bellezza, la cultura. Si può stimare se stessi quando ci si mette a servizio di qualcosa di più grande e per questo qualcosa si spende la propria fierezza. Del resto, se così non fosse, non ci sarebbe evoluzione. Con questo non voglio dire che bisogna sacrificare se stessi come si faceva una volta, ma neanche cadere nell’opposto.
Lei dice che ci siamo liberati della trappola della religione, ma questo ha generato un vuoto, e mentre è possibile vivere senza Dio teologico, è impossibile vivere senza un Dio psichico. Cosa intende?
Il Dio psichico è un sentimento dentro di noi, che ci proietta in un orizzonte più ampio. Questo orizzonte può essere ad esempio il senso dello Stato, o il bene comune, il rispetto per gli avversari, una passione.
Nel suo libro ci sono anche la crisi della democrazia e il senso di sfiducia nella politica. Lei cita un professore di Oxford, Jan Zielonka, che descrive i politici come criceti felici di correre dentro una ruota, che però non va da nessuna parte. Da cosa dipende tutto ciò?
Credo che un effetto negativo sia dovuto alla scomparsa dei corpi intermedi. Una volta c’erano i partiti, ma anche ad esempio alcune istituzioni del mondo cattolico. Questi livelli intermedi riuscivano a drenare i desideri di pancia, a sfrondare gli istinti populisti, a selezionare, e a veicolare il consenso in funzione istituzionale. Il contatto diretto crea invece più facilmente spazio al populismo. E poi, c’è il problema dell’orizzonte temporale dell’azione politica che è troppo breve.
Lei affronta, anche se per inciso, un altro argomento sensibile, quasi un tabù, quello del suffragio universale e del problema degli elettori che votano anche quando non sono informati. Scrive: “per portare l’automobile occorre la patente, perché non dovrebbe essere lo stesso per eleggere quelli che devono guidare un paese?”. Ma come si fa a risolvere una questione così delicata?
La mia è una riflessione che chiunque abbia buon senso credo possa condividere. Non sta a me però indicare possibili soluzioni.
Veniamo al cuore del messaggio espresso nel suo ultimo libro. Cos’è la pedagogia della gioia?
È l’apprendimento degli elementi essenziali dell’arte di vivere. Noi non siamo nati per fare cose, ma per sentire la gioia di vivere. Non serve a nulla andare chissà dove o leggere chissà quanti libri, se poi si vive nella competizione e nell’invidia. Ci sono tante persone incattivite, impaurite, in preda ad ansia e malessere. Sono davvero convinto che ci sarebbe bisogno di una pedagogia della gioia, che insegni il contatto con la bellezza. Ai bambini bisognerebbe insegnare teatro, canto, disegno, tutto ciò che è gioia di essere. Il professore dovrebbe essere innanzitutto un pedagogo, con una formazione specifica.
Quindi nelle scuole non ci vorrebbe solo educazione all’affettività, di cui abbiamo recentemente sentito parlare, ma ci vorrebbe una prospettiva ancora più ampia.
Si, bisognerebbe dare spazio all’insegnamento dell’arte del saper vivere. Mi rendo conto che sarebbe una rivoluzione, ma è importante già lanciare un messaggio di questo tipo. È ciò che in fondo fa la filosofia sin dall’antichità, con la figura del saggio.
Quale suggerimento si sente di dare ai giovani?
Ai giovani dico: non fatevi rubare il silenzio. È importante relazionarsi ed essere connessi, ma non si deve tralasciare il raccoglimento con se stessi. Non parlo di isolamento, ma piuttosto di una solitudine feconda.
Ora una domanda di attualità, che ci coinvolge tutti. Qual è la sua idea rispetto al conflitto israelo-palestinese?
Per disposizione di fondo, sono empatico con Israele e con il popolo ebraico. Tuttavia la reazione, con tutte quelle vite perse e la distruzione voluta, è stata sproporzionata. È terribile anche l’ipocrisia della comunità internazionale.
Ora solo qualche piccola curiosità. Cosa fa Vito Mancuso, oltre a leggere, per nutrire la mente?
Ascolto musica classica, Bach in particolare, e faccio passeggiate.
Lei scrive molto, ma in tv si vede poco. Come mai?
Non sono tanto uno showman. E poi fare filosofia vuol dire non alzare mai la voce. Se si urla, è un tradimento.
E chissà che questa rivoluzione a bassa voce, che ci liberi dalla schiavitù moderna dell’individualismo e del narcisismo, in direzione della bellezza e dell’universalità, non possa già cominciare.