Frame dal video di Ghali "Casa mia" - foto dal profilo Fb di Brahim Baya

La canzone di Ghali e la preghiera all’Università di Torino

“Casa mia o casa tua, che differenza c’è? Dal cielo è uguale”, canta Ghali, e ha ragione da vendere.

Della preghiera-orazione tenuta alcuni giorni fa da Brahim Baya in un edificio occupato dell’Università di Torino si è parlato tanto, ma soprattutto con riferimento alla mancanza di autorizzazioni, e alla difesa della laicità dell’ateneo. L’episodio però offre, e deve offrire, l’occasione di riflettere su un tema che è ancora più centrale: il ruolo delle donne nella nostra società, e quello che ricoprono nelle culture diverse dalla nostra. Durante il sermone di Baya, le donne occupavano uno spazio periferico, e fisicamente separato dall’utenza maschile: sedevano di lato e al di là di una piccola rete posta tra due pilastri. Si tratta, senza mezzi termini, di immagini che veicolano significati in forte contrasto con la nostra sfera valoriale. Da donna, non vorrei entrare in un luogo pubblico e vedermi assegnare un posto specifico, per di più marginale, perché ho la vagina e sono considerata meno degna di ruolo per questo. Quelle immagini in una università pubblica non sono accettabili, e non perché sono fuori dal nostro orizzonte culturale, ma perché ci sono voluti anni, generazioni, lotte familiari e sociali, riforme a piccoli e grandi passi per allontanarci da quel modello ideologico che sottende l’inferiorità femminile, e non abbiamo neanche ancora finito il lavoro. Ogni riferimento culturale – da qualunque religione o tradizione provenga – che ripropone più o meno apertamente la disuguaglianza tra i sessi non può essere riproposto, non può essere accolto.

Ghali ha perfettamente ragione quando nella sua splendida canzone dice che non c’è differenza tra “casa mia o casa tua”. La Terra è una, e dobbiamo cominciare a pensare ad un mondo con confini sempre più labili, e anzi, favorire scambi e integrazione. L’idea è bellissima e giusta, siamo tutti cittadini del mondo. Tuttavia, la complessità della coesistenza di culture così diverse non si risolve da sé e va affrontata. A nulla serve invocare come ha fatto il dialogante Baya, oratore della lezione/preghiera, l’islamofobia. Non si tratta di questo, non è paura del diverso, non è paura dell’Islam. Si tratta solo della necessità di affermare con forza che la casa è una, ma nelle nostre università le donne non possono – mai, mai, in nessun caso – occupare aree dedicate e recintate, perché è offensivo, contro la legge, anticostituzionale. Abbiamo visto altri casi simili: ad aprile scorso, per celebrare la fine del Ramadan, la comunità musulmana si è riunita in strada a Roma, e anche lì, immagini inaccettabili di donne segregate in una specie di recinto, realizzato con teli neri. In alcune città europee (a Bruxelles, ad esempio) le piscine pubbliche riservano in alcuni orari l’accesso a sole donne, per andare incontro ai dettami della loro religione. In questo modo le donne musulmane possono andare in piscina, e tuttavia la nostra società finisce di fatto per inglobare e accettare forme di segregazione superate da molti decenni.

La contraddizione è alla radice della questione. Democrazia vuol dire tolleranza e apertura, e mal si concilia con i divieti.

E tuttavia, occorre definire – pena il ripiegamento della democrazia stessa – dei precisi limiti invalicabili. Principi come l’uguaglianza tra uomini e donne e il bando di ogni forma di segregazione vanno difesi in tutti i modi, quale baluardo irrinunciabile del nostro vivere.

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