Image from Freepick

Il “tempo rubato” e quel rischio di perdersi in un mondo corre

Il furto del tempo. Molti adulti di oggi, donne, uomini, lavoratori e lavoratrici, hanno la sensazione che sia rubato loro del tempo, con la predazione di molti spazi liberi e addirittura del sonno. È il furto quotidiano che il frenetico stile di vita moderno incoraggia. Come si spiega questa impressione? E chi sono i ladri? I datori di lavoro che non rispettano orari, i figli con le loro pressanti esigenze, ma anche e soprattutto i social con la dipendenza che innescano, l’incessante rincorsa all’informazione continua, e in generale quella sensazione per cui occorre ‘fare’ sempre di più. Qualche volta i ladri sono gli uomini che si aspettano dalle donne una fetta maggiore di lavori domestici, accudimento, intrattenimento delle relazioni sociali.  Alla fine del giorno, sembra che nessuno sia riuscito a portare a compimento ciò che doveva. A volte la sensazione colpisce anche i più giovani. Il tempo si auto-fagocita. Perché e come si spiega questo meccanismo? Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta Letizia Servillo.

“Quella sensazione che il tempo venga “rubato” – spiega la dottoressa Servillo – è molto più diffusa di quanto immaginiamo, e non è solo una percezione soggettiva: ha radici profonde nella nostra organizzazione mentale e nella società in cui viviamo. Viviamo in un’epoca di iperconnessione e sovrastimolazione, in cui i social, le notifiche continue e l’ansia di essere costantemente aggiornati ci spingono a vivere in uno stato di allerta perenne. Questo finisce per saturare la nostra mente, consumando energie cognitive e lasciandoci svuotati, anche se apparentemente “non abbiamo fatto nulla”.
Accanto a questo c’è il carico mentale invisibile, spesso sulle spalle delle donne, che si occupano non solo di fare le cose, ma anche di pensare a tutto ciò che va fatto: scadenze, compiti, relazioni familiari, figli, casa, lavoro. È come avere mille finestre aperte nella mente, tutto il giorno, tutti i giorni. Poi ci sono le aspettative sociali: i ruoli precostituiti, gli automatismi culturali che vogliono la donna accogliente, organizzata, presente, efficiente… senza pause, senza errori. In questo contesto, anche il tempo personale diventa un lusso, spesso accompagnato da sensi di colpa.
E così, alla fine della giornata, si arriva stanchi, insoddisfatti e con la sensazione di non aver davvero “fatto” ciò che conta. Anche i più giovani ne sono colpiti, schiacciati da aspettative alte, confronto costante, e una continua sensazione di “non abbastanza”.
Il tempo sembra mangiarsi da solo. E tutto ciò non è solo un problema di agenda piena: è un nodo emotivo, psicologico, culturale. Un nodo che possiamo cominciare a sciogliere solo mettendo consapevolezza, facendo spazio a ciò che ha valore e imparando – davvero – a riconoscere e proteggere i nostri bisogni”.

La sensazione del furto di tempo è emersa con maggiore evidenza soprattutto dopo il Covid, con l’iperconnessione che ne è derivata e l’abbattimento dei confini temporali sulle autostrade della rete.
“Dopo il Covid – commenta la dottoressa Servillo – abbiamo vissuto una trasformazione radicale del tempo. Le giornate si sono sfilacciate, i confini tra lavoro, relazioni e tempo personale si sono dissolti nella rete. Il “furto del tempo” non è solo una sensazione: è una crisi del tempo del sé, sostituito spesso da un tempo “altro”, speso per rispondere, produrre, apparire”.

Come fare per riappropriarsi del tempo del sé?
“Per riappropriarsi del proprio tempo, servono alcuni passaggi, non facili, ma profondamente trasformativi:
Riconoscere la dispersione: il primo passo è accorgersi di come e dove “scivola via” il nostro tempo. Non con colpa, ma con consapevolezza. Quanto spazio occupano gli schermi? Le richieste degli altri? I doveri?
Ritrovare la presenza: il tempo del sé non è solo “tempo libero”, ma è tempo abitato da presenza mentale, da corpo, da ascolto interiore. Anche pochi minuti al giorno in cui ci chiediamo: “Come sto?” possono ridare forma al nostro tempo.
Imparare a dire “basta”: è un atto rivoluzionario. Basta a ciò che non nutre, che svuota, che chiede senza restituire. La gestione assertiva del tempo è un’abilità psicologica che si può imparare, poco a poco.
Creare rituali personali: il tempo del sé ha bisogno di ritualità, anche semplici. Una passeggiata senza telefono, una scrittura quotidiana, un caffè in silenzio. Piccoli gesti che segnano il ritmo del nostro valore.
Educare il contesto: spesso, riappropriarsi del tempo implica riposizionarsi nelle relazioni. Far capire che abbiamo bisogno di spazio, che non siamo sempre disponibili, che valiamo anche quando non produciamo o non rispondiamo subito”.
“In psicoterapia – con conclude la dottoressa Servillo – tutto questo viene chiamato lavoro di integrazione del sé: rimettere al centro la propria soggettività, non come egoismo, ma come cura. Perché solo chi ha tempo per sé può davvero essere presente con e per gli altri”.

L’iper-presenza, quell’obbligo silenzioso a essere ovunque e su tutto, finisce per trasformarsi nella più profonda delle assenze. Quando cerchiamo di rispondere a tutte le richieste – di lavoro, familiari, sociali – ci troviamo costantemente divisi tra mille compiti e contesti. Non siamo mai veramente lì, né per gli altri né, soprattutto, per noi stessi.
Senza uno spazio personale di ascolto, di cura e di rigenerazione, si rischia di offrire agli altri solo presenze vuote, distratte, frammentarie. Prendersi cura del proprio tempo interiore significa, in fondo, prendersi cura anche delle relazioni a cui teniamo di più.

Potrebbero interessarti...