Intervista alla psicologa Letizia Servillo
In riferimento alle guerre e alle atrocità a cui assistiamo negli ultimi tempi, è interessante approfondire il tema dell’odio collettivo, dell’odio tra gruppi e tra popoli. Risponde alle nostre domande la psicologa e psicoterapeuta Letizia Servillo.
Dottoressa, prima di approfondire le dinamiche dell’odio collettivo, ci dia una definizione generale di odio. È un sentimento che certamente tutti conosciamo e di cui a livello individuale possiamo aver fatto esperienza diretta. Quali sono le sue principali caratteristiche?
L’odio è un sentimento, inteso come uno stato affettivo che si protrae nel tempo e che crea ponti relazionali, in questo caso avversi, verso una persona o gruppi di persone. Il sentimento a differenza dell’emozione, intesa come una risposta rapida ed adattiva, ha un impatto più a lungo termine sul modo in cui viviamo nel mondo e per questo può creare più effetti collaterali. L’odio però non deve essere interpretato come qualcosa da eliminare tout court, perché è comunque un aspetto della vita emotiva e relazionale, che va compreso, accettato e superato, canalizzandolo in forme più diluite e socialmente accettabili. Si tratta di un sentimento antico, che portò Freud a credere che fosse addirittura antecedente all’amore, poiché in certi periodi della vita può essere anche funzionale a proteggere il bambino dai pericoli reali del mondo esterno e a raggiungere la propria autonomia emotiva e relazionale. Ma al di là degli aspetti evolutivi e delle varie definizioni di odio, si possono rilevare alcune proprietà generali: la negazione dell’intimità, la passione, il coinvolgimento e la potenza dell’azione. L’odio si può poi combinare anche con altre emozioni come la rabbia, la gelosia o l’invidia.
È facile immaginare che esistano delle dinamiche collettive dietro i fatti di attualità a cui stiamo assistendo. La psicologia può aiutare a capire? Quando l’odio si trasforma in sentimento collettivo?
Le potenzialità distruttive dell’odio si esprimono maggiormente non a livello individuale, ma soprattutto a livello culturale e sociale, quando viene sistematicamente instillato, coltivato fino a imprimersi nell’immaginario collettivo condiviso dalla maggioranza. In questo caso, l’odio diventa una sorta di lotta di valore, necessaria, per raggiungere il bene comune, una sorta di dimensione idealistica, alla base della maggior parte degli stermini compiuti nella storia. Esso diventa a livello collettivo, manifestazione di potere, di rivalsa, di possessione e sottomissione, in nome di un ideale condiviso dalla cultura di appartenenza. Lo psicologo statunitense Robert Sternberg evidenzia cinque passi in particolare che scandiscono la modalità con cui tale sentimento può essere instillato da un leader nel gruppo di appartenenza: 1) identificare un obiettivo da odiare; 2) mostrare come esso abbia provocato dei danni al gruppo (o alla nazione intera); 3) mostrarne la presenza e 4) l’azione che sta conducendo contro il gruppo; 5) notare i successi compiuti e i miglioramenti che l’azione ha comportato per la collettività. L’altro, l’estraneo, a volte che coincide con la minoranza, diviene così, come il capro espiatorio. Ne troviamo anche alcuni esempi in letteratura, Manzoni li chiamava untori, coloro che avevano portato la peste a Milano, frutto dell’incapacità di esercitare il pensiero critico di fronte ad alcuni eventi così mortiferi. Un altro aspetto notevole nella diffusione dell’odio collettivo è dato dalla collaborazione passiva, l’osservazione senza partecipazione, il lasciar perdere e scegliere il quieto vivere per paura o disinteresse può essere considerato come una forma di approvazione e di consenso passivo. È la medesima dinamica del «branco», in cui i comportamenti violenti, quando sono opera della massa, tendono a sminuire la percezione della responsabilità individuale, facendo sentire i singoli anonimi e spinti da una forza più grande, impersonale e distruttiva, che li avvolge, coinvolge e li assorbe come un vortice. Tutto ciò conferma Tucidide: «Il male non è solo di chi lo fa. È anche di chi, potendo evitarlo, non fa nulla per evitarlo».
Al di là delle motivazioni concrete (politiche, economiche) dei singoli conflitti, è molto interessante questa specifica messa a fuoco sull’odio che diventa parte dell’immaginario collettivo, fino ad assumere una dimensione idealistica, di lotta di valore necessaria. Quanto e in che modo si inserisce il credo religioso in questo discorso?
L’odio collettivo a livello religioso può s-cadere nel fanatismo, che può mettere a rischio diritti fondamentali, alimentando atteggiamenti violenti e discriminatori soprattutto a danno delle donne e delle minoranze. Siamo di fronte a identificazioni assolutistiche, caratterizzare da un’adesione irrazionale esasperata e esasperante ad un credo religioso, con conseguente intolleranza verso qualunque diversità. Numerosi studi psicologici sul fanatismo religioso ne evidenziano l’associazione con gravi patologie di personalità. La religione diventa parte integrante del proprio Sé, una vera e propria identificazione, tale che ogni critica o divergenza dal proprio credo viene sentita come un vero e proprio attacco al precario senso di identità personale. Difendere valori e principi religiosi a qualunque costo e contro qualunque diversità, equivale in un certo senso a difendere il proprio stesso senso di esistere, pena la frammentazione e l’annichilimento sul piano psicologico. Per questo si arriva anche a sacrificarsi, in forme di suicidio/omicidio del proprio Sé.
La questione israelo-palestinese è antica e molto complessa ed è riemersa con una dirompenza e una violenza sconcertanti. In una tessitura così intricata, risultato di eventi storici, politici, sociali, esistono degli approcci in grado di disinnescare l’odio?
La lunga e complessa storia del conflitto tra israeliani e palestinesi ha afflitto il Medio Oriente per decenni. Nel corso degli anni, ci sono stati cicli di violenza, attentati, suicidi, incursioni militari e conflitti che hanno causato la perdita di vite umane da entrambe le parti. Numerosi tentativi di mediazione hanno cercato una soluzione pacifica, ma fino ad oggi nessun accordo durevole è stato raggiunto. Il discorso è davvero complesso, perché sono molteplici gli interessi che si sono sommati negli anni, che si aggrovigliano in matasse così fitte da perderne il capo d’inizio e purtroppo di fine, a cui si aggiungono idealismi, fanatismi a complicare ancora di più le già precarie condizioni psico-sociali della questione. Sicuramente possiamo parlare di conseguenze psicologiche, dovute ad esposizione così prolungata ai conflitti e alle guerre, di queste popolazioni coinvolte direttamente, ma che possono avere effetti anche su chi “passivamente” le osserva da lontano (infodemia), come ansia, stress, depressione, disturbi del sonno, aumento di comportamenti aggressivi e dell’intolleranza. Ecco esempi di come l’odio purtroppo ha effetti collaterali a lungo termine, con ripercussioni sulla propria salute mentale, poiché tutto ci riguarda, ciò che è lontano da noi ha sempre un’onda d’urto anche a chilometri di distanza. Se iniziassimo a pensare così, forse, potremmo disinnescare alcuni meccanismi come l’indifferenza, l’egoismo, l’intolleranza, predisponendoci maggiormente alla comprensione di sé stessi e degli altri, senza prevaricazioni o questioni di “potere su”.